Preferiamo il rumore degli interrogativi – EDITORIALE DICEMBRE 2020

Condividi questo articolo

Preferiamo il rumore degli interrogativi

Preferiamo il rumore degli interrogativi

Le parole sono importanti, sempre. Quelle dette e quelle non dette, che andrebbero davvero scelte con cura (citando non a caso Alda Merini e una sua frase ormai abusata, tanto da risultare svuotata di senso e per questo paradigmatica), non solo perché suonano bene. Ma anche la punteggiatura.
Avevamo scritto, nel dare la notizia, che avremmo fatto un passo indietro e così è stato. Una scelta dettata dall’istinto ma che abbiamo meditato, prima di metterla in atto e la nostra posizione resta quella. “Silenzio e rispetto”, parole di altri ma che abbiamo apprezzato,, per noi le migliori da usare in quel frangente e in quei giorni.
Sottolineiamo il “per noi” perché non pretendiamo che il nostro modo di sentire o di pensare o di agire sia necessariamente da condividere e ci aspetteremmo, questo sì, che valesse per tutti e sempre. Il contorno che ha accompagnato l’immensa tragedia di Carignano ha purtroppo dimostrato il contrario.
E da qui partiamo (senza alcun riferimento al caso specifico), per una più ampia riflessione (nostra, del tutto personale e che non ha la pretesa di essere condivisa) sull’uso delle parole, e non solo. Perché, appunto, le parole sono importanti, ma forse lo sono ancora di più i toni e la punteggiatura.
Perché noi siamo, anche, la lingua che parliamo e il linguaggio con cui ci esprimiamo e ci rapportiamo con gli altri e le nostre parole, come vengono scelte e pronunciate, dicono chi siamo e hanno delle conseguenze. Che poi ne siamo consapevoli è un’altra questione.
C’è chi tende a vivere di punti interrogativi e chi di punti esclamativi. Ma sono gli esclamativi che caratterizzano questi nostri tempi e che trovano amplificazione nei formidabili strumenti di “comunicazione” di cui disponiamo e che ci consentono, tutti nessuno escluso, di avere sempre e comunque un pubblico. Slogan, frasi fatte, citazioni a caso (ritornando all’inizio di questo scritto), parole urlate: viviamo di semplificazioni, di estremismi, dogmatismi, sentiamo la necessità di urlare per farci sentire. Ma nessuno ascolta davvero, nessuno legge davvero, nessuno cerca davvero di comprendere se stesso e gli altri, abbiamo perso la capacità di riflettere e ci muoviamo in totale adesione al sentimento comune. Perché bisogna stare o da una parte o dall’altra, avere per forza un nemico e una guerra da combattere, schierarsi e costruire barricate da cui urlare insieme a chi urla più forte; inconsapevoli del livore e della violenza con cui pretendiamo di contrastare e prevenire la violenza e di cogliere i pericoli dei nostri stessi comportamenti. Giudicanti ma incapaci di guardarci dentro, rifiutiamo di contemplare l’ipotesi che nessuno sia immune dal male inflitto o subìto, privandoci così dell’opportunità di temerlo e di tentare con tutte le nostre risorse di evitarlo.
Esclamativi per imporci e prevaricare sugli altri, con la sicumera e l’arroganza di chi crede di possedere la verità in tasca e di essere il detentore del bene, del giusto e del bello, ed esercita questo preteso diritto come se fosse un’investitura divina.
Buonisti, perbenisti, moralisti, primi della classe sempre pronti a puntare il dito verso chi, magari usando altri toni e mettendoci dei punti interrogativi, osa proporre una visione diversa o tenta un’elaborazione personale di ciò che accade, senza che avere un’opinione diversa significhi mancanza di opinioni, di ideali, di valori o di morale, senza che esprimerla con gentilezza significhi pavidità o debolezza.
Dove ci siamo persi l’interiorità, la profondità, l’attitudine ad un pensiero analitico, critico e autocritico, l’ironia e l’autoironia? Dubbi mai, certezze preconfezionate, che ci rassicurano e ci fanno sentire come gli altri e migliori di quelli che stanno dall’altra parte, tronfi e autocompiaciuti, beatamente inconsapevoli di essere usati e strumentalizzati e di farlo a nostra volta. L’infinta complessità del mondo, siamo ancora capaci di intuirla? O ci bastano gli slogan, ci fermiamo alla simpatia e non raggiungiamo mai l’empatia, ci basta avere dei nemici da combattere, una qualche bandiera purché sia da sventolare, per dare un valore e un significato alla nostra esistenza?
Perché, alla fine, il lessico bellico appartiene a tutti noi. E tanto per rimanere in tema, questo Natale assurdo che ci aspetta e che sarà “come in tempo di guerra, ma almeno allora il nemico da combattere era in carne e ossa”, forse che non possa essere l’occasione, al riparo nelle nostre case, per pensare che, oltre al virus, il nostro nemico siamo noi stessi?
Chiudiamo con questo punto interrogativo.

Cristina Cavaglià




 

 

Condividi questo articolo

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.