COME ERAVAMO / APRILE – “Quando la radio stava sul buffet e ci si scaldava con la stufa a segatura

Come eravamo aprile - Stufa a segatura

L’immagine della stufa  a segatura qui proposta è tratta da Luciano Gibelli, “Memorie di cose. Attrezzi, oggetti e cose del passato raccolti per non dimenticare” (Priuli & Verlucca, 2006).

COME ERAVAMO / APRILE

Quando la radio stava sul buffet e ci si scaldava con la stufa a segatura

Questo mese, tempo di riflessioni, quasi un ritorno al passato che appartiene a quanti, come me, hanno ormai i capelli grigi-bianchi, oppure noto a quei giovani che hanno ascoltato i racconti di anziani parenti.
Le nostre giornate, le nostre azioni sono ormai tutte improntate alla tecnologia ma un tempo (sono passati anni ma non un secolo) nelle case, e neanche in tutte, c’era solamente un apparecchio radio, di solito posizionato sul buffet, in cucina, in alto perché i bambini non potessero raggiungerlo e combinare guai.
L’acqua si attingeva da una pompa collegata ad un pozzo in cortile oppure da pompe a mano pubbliche e sicuramente non veniva sprecata: era faticoso portare i secchi in cui veniva raccolta.



Per cucinare, in qualsiasi stagione,  prima dell’avvento delle prime cucine elettriche, si usava il “potagé” che, alimentato da grossi ciocchi di legno, d’inverno era anche fonte di riscaldamento. Spesso, però, d’inverno in cucina si aggiungeva la stufa a segatura composta da un cilindro in lamiera di ferro col fondo chiuso, appoggiata su mattoni. Nella parte inferiore uno sportellino con fori (aeratori) per dosare il tiraggio e nella parte superiore un coperchio manovrabile con maniglie. In un caricatore (anima), sempre in lamiera, dove si apriva a sua volta uno sportello da far combaciare con quello esterno, veniva immessa e ben pressata la segatura, per gradi, dopo aver opportunamente posizionato al centro, appoggiato al fondo, un bastone di legno che veniva sfilato quando il caricatore era introdotto all’interno della stufa. Infine, dallo sportello aperto, raggiungendo il foro centrale dell’anima, si introduceva un canapolo acceso coi fiammiferi ed aveva inizio la bruciatura; si arroventava così il tubo di scarico (“cannone”) inserito nella parte alta della stufa, al quale si collegavano altri tubi per portare il calore anche nelle altre stanze e, per consentirne il passaggio,nelle pareti, verso l’alto, esistevano dei fori. Le cariche duravano molte ore (di solito anche dalla sera al mattino) ed i caricatori dovevano essere almeno due per la sostituzione.
Le famiglie vivevano in due stanze, nel migliore dei casi in tre ed i vetri delle finestre della camera da letto, al mattino, era coperti di “arabeschi gelati”; come maggior riparo dal freddo, si indossavano, direttamente sulla pelle, maglie di lana con maniche lunghe, confezionate a volte ai ferri da mamme e nonne e le calze lunghe di lana (le ricordo di color verdone, a coste) fermate da elastici coi buchi che scendevano da un reggicalze.
Cadeva molta neve, i marciapiedi non c’erano, le auto in circolazione si potevano contare sulle dita di una mano e sulle strade la neve veniva spalata ed ammucchiata ai lati per fare dei passaggi da percorrere a piedi (“le calà”).
Le massaie svolgevano inoltre un’operazione particolarmente gravosa che richiedeva molto tempo e si effettuava due-tre volte l’anno: il bucato (la lëssìa). Si sceglieva un giorno che prometteva bel tempo duraturo ed al mattino presto la massaia si metteva all’opera, con l’aiuto delle altre donne di casa e talvolta delle vicine. Le lenzuola di tela o canapa (pesanti), federe, tovaglie, asciugamani e panni vari, già ammollati e insaponati, venivano sistemati, distribuendo opportunamente la lisciva, in un grosso mastello di legno o di zinco (rivestito in precedenza con un canovaccio): in basso aveva un foro chiuso da un tappo (zaffo). Già prima, riempita d’acqua la caldaia, posata su un treppiede o inserita nella “fornëtta” in un angolo del cortile era stato acceso il fuoco, dove c’erano ceppi e legnami vari. Una precisazione: la “forntëta” era una piccola, bassa costruzione in mattoni refrattari con un camino ed un’apertura chiusa da cerchi di varie dimensioni che venivano tolti per l’uso ed in basso, nella parte anteriore c’era il focolare. Sopra i panni si metteva un ceneracciolo per formare la conca del bucato dove si rovesciava la cenere, ben setacciata ed avendo escluso fin dall’inizio della raccolta quella di castagno che macchiava. Quando l’acqua era al bollore, con una “cazza” dal lungo manico si rovesciava l’acqua nel mastello, a mano a mano che filtrava attraverso la cenere ed intanto si portavano a bollore altre caldaiate d’acqua fino allo riempimento. Si lasciava riposare per 24 ore almeno perché all’interno si completasse il processo di candeggio: si toglieva allora il tappo e l’acqua che fuoriusciva (ranno) era messa nuovamente a bollire per rovesciarla ancora nel mastello, anche più volte, finché non usciva bollente. Scolato tutto il ranno, rimosso il ceneracciolo, si versava ancora una caldaia d’acqua bollente sui panni che infine si andavano a sciacquare nell’acqua fresca del lavatoio o del ruscello .per stenderli poi ad asciugare sui fili tesi. L’intera operazione poteva richiedere, a seconda della quantità lavata, anche tre giorni.
In via Salotto c’erano ben tre negozi di alimentari (frutta, verdura, salami affettati al momento dell’acquisto, formaggi, pasta sfusa e zucchero). Quest’ultimo veniva impacchettato con abili movimenti delle dita che chiudevano prima i lati del foglio piegato in due e poi le due parti libere, finali; si usava una carta blu, spessa, che all’occorrenza, spalmata con un po’ di burro, serviva per curare inevitabili bernoccoli e lividi. Per il peso, una bilancia a due piatti: su uno si posava la merce, sull’altro i pesi in ottone di diversa pezzatura per stabilire quello giusto pareggiando i piatti oppure la stadera con un solo piatto per la merce ed un’asta graduata su cui si faceva scorrere il contrappeso.
I pasti erano frugali: di norma bollito (e relativo brodo) e spinaci la domenica; ma erano importanti quelli di Natale, Capodanno, San Remigio con agnolotti fatti in casa preceduti da qualche antipasto (immancabile l’insalata russa) e poi la torta, quasi sempre pan di spagna ammorbidito con un po’ di liquore e farcito con crema o zabaglione.
Non era obbligatorio frequentare l’asilo (attuale, con molte modifiche, “scuola materna” e poi “scuola dell’infanzia”): le famiglie erano patriarcali e, oltre alle mamme (non tutte andavano a lavorare), nonne e zie accudivano i bambini che entravano in prima elementare senza conoscere una sola parola d’italiano (salvo pochissime eccezioni in casa avevano sempre parlato solo in dialetto). Le maestre a cui erano affidati con pazienza, volontà e preparazione riuscivano a compiere miracoli. Concluse le elementari, per continuare gli studi c’erano due possibilità: il collegio (Virle, Carmagnola, Torino) o il viaggio, prima in tramway e poi in pulmann ed allora su questi torpedoni si aprivano portelloni enormi, pesanti e non sempre c’erano passeggeri adulti per aprirli e chiuderli: lo facevamo con molta attenzione e non ricordo che nessuno si sia mai infortunato. Impensabili quelle che sono ora le norme di sicurezza.
E’ evidente quanto ed in poco tempo le nostre abitudini, il nostro quotidiano siano cambiati, nessun rimpianto, nessuna nostalgia, ma il cambiamento riguarda anche le persone perché “allora”, avendo poco o nulla, godevamo anche delle piccole cose, ora aspiriamo sempre a qualcosa di più. Se è vero che occorre “pensare in grande” per realizzarsi al meglio, è altrettanto vero che bisogna far tesoro del passato e non dimenticare. Certi valori, fondamentali, come impegno e rispetto allora, lo sono tuttora, così come un verbo andato in disuso “accontentarsi”: l’invidia è una cattiva consigliera.

COME ERAVAMO  – Rubrica a cura di Marilena Cavallero

A gennaio

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