Il vuoto addosso sabato 5 novembre, per ritrovare un abbraccio: la nuova performance di Ruben Montini al Museo Ettore Fico
Il MEF – Museo Ettore Fico di Torino (via Francesco Cigna 114) presenta Il vuoto addosso, la nuova performance di Ruben Montini con un testo a cura di Elsa Barbieri. Un ritorno, sette anni dopo “Think of me, sometimes”, realizzata insieme all’ex compagno, l’artista tedesco Alexander Pohnert: la nuov azione si svolgerà sabato 5 novemvfe alle ore 12.
Il reenactment della precedente performance sarà un tentativo, estremo come è nella natura della sua pratica performativa, di ricostruire l’immagine di quell’abbraccio che nel 2015 l’aveva stretto fino allo sfinimento.
Ruben Montini è anche tra gli artisti in mostra in ECLETTICA!, visitabile al MEF fino al 18 dicembre, con l’opera “Agli amanti…e anche a quelli d’Italia”. La bellezza e la fragilità di un oggetto come il tappeto, simboleggiano l’usura dei rapporti umani interpersonali. La sua vicinanza alla terra e alla “polvere” ricordano che tutto un giorno ritornerà a far parte della grande Madre Terra. La gradevolezza della lana evoca il calore familiare, ma la frase che domina l’opera spalanca una voragine sull’ignoto: Cosa resta di noi?
Ruben Montini (Oristano, 1986), vive e lavora a Torino. Muovendosi tra la performance e la creazione di opere tessili, tra azioni fisiche e collettive, Ruben Montini articola un pensiero complesso che se da un lato si fa lieve e romantico, dall’altro è una delle voci narranti delle battaglie odierne della comunità LGBTQ+. Performance dopo performance, il suo corpo tende sempre di più a diventare un simulacro di segni e tracce di ciò che le persone LGBTQ+ soffrono ancora oggi all’interno della società contemporanea. Montini è anche impegnato in progetti corali che coinvolgono il pubblico nella costruzione di monumenti temporanei e di rituali che diventano memoriali effimeri per la minoranza della sua comunità. Il suo lavoro è stato esposto in diverse istituzioni nazionali e internazionali: Fondazione Miniartextil, Como; NOMUS, The New Art Museum, Danzica; Gallerie delle Prigioni, Treviso; Kunsthalle Bratislava; Casino Luxembourg Forum d’art contemporain, Lussembugo; GAMeC, Bergamo; FdG Projects, Bruxelles; CRUCE Arte y Pensamiento, Madrid; Museum Arnhem, Olanda; Villa Adriana, Tivoli; Aleš South-Bohemian Gallery, Hluboká nad Vltavou; Fondazione MACC, Calasetta; Dům umění města Brna, Brno; MKC, Split; MAN_Museo d’Arte Provincia di Nuoro; Museum Europäischer Kulturen, Berlino; Museum for Contemporary Art Ujazdowski Castle, Varsavia; Centre of Contemporary Art, Torùn; Museo Ettore Fico, Torino; Oratoire du Louvre, Parigi; Castello di Rivoli, Torino.
Abbracciami.
Meglio di no.
Abbracciami.
E se poi ti rompi?
Abbracciami.
Poi non ci sei più.
Abbracciami.
Nell’abbraccio tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la logica, il vuoto. Non uno qualunque, attenzione, ma proprio quel vuoto, quello dalle dimensioni esatte. Che lì, proprio in quell’abbraccio, si colma esaurendosi.
Ma qual è il suo culmine?
Sette anni esatti dopo “Think of me, sometimes” (che aveva realizzato insieme al suo ex compagno, l’artista tedesco Alexander Pohnert), Ruben Montini torna al Museo Ettore Fico con “Il vuoto addosso”, reenactment* della precedente performance con cui ritrova, nello stesso posto, quell’abbraccio che, nel 2015, l’aveva stretto fino allo sfinimento. Romantica metafora della vita, presupponendo che si desume “romantica” dall’aggettivo inglese come usato nel Seicento anche per indicare qualcosa di stravagante e irreale, oltre che amoroso. Perché si, stravagante e irreale è la vita. E l’amore? Forse che non lo sia? Quello immaginato, sognato, voluto. Quello che si costruisce tenendosi stretti e abbracciandosi, fino allo sfinimento. Quello che costruiamo a partire da un’attrazione irresistibile. Quello in cui subentrano il dubbio, la paura, il bisogno di certezze, che a volte non otteniamo. E allora proviamo a difenderci, cerchiamo di distrarci, di desiderare altre cose. Ma non ci riusciamo. Ed è qui che ci struggiamo, nella speranza di essere riamati per sempre. È stravagante, si. È irreale, si.
Stendhal chiama questa fase con un termine preciso: cristallizzazione.
Cos’è la cristallizzazione? Chimicamente si, è quel fenomeno per cui una sostanza assume lo stato cristallino, il che può avvenire per solidificazione, o per sublimazione, o per processi biologici. Ma è figurativamente che ci interessa come il fatto di cristallizzare, riferito a una persona, significhi conservarla in una forma rigida, fissa, impossibilitata a svanire.
Fermiamoci un momento qui. Ruben Montini sta cristallizzando un abbraccio, personificandolo, e fissandolo nel ricordo del suo amore. Non più, però, in un tempo che appartiene alle fasi dell’innamoramento, bensì in un istante che differisce dal sogno e non si consuma nel ricordo. Quello della cristallizzazione. Eccolo, allora, il culmine che stavamo cercando.
Il culmine di un vuoto è affare umano, come è nella natura performativa di Montini, unico nel superare i limiti e infrangere le barriere per accompagnare l’autobiografia nel terreno della collettività. Quante volte abbiamo cristallizzato il nostro amore? Almeno due volte, tutti noi. La prima intimamente, nel corso della vita, la seconda qui – oggi – davanti a noi con Ruben Montini quando, anche superandosi artisticamente con l’uso dell’argilla, ha dato corpo a una figura senza un nome, senza un cognome, senza una biografia ma con le esatte proporzioni dell’abbraccio che una volta ancora lo terrà. E terrà anche noi.
Non importa se cadrà, perché cadrà. Esattamente come sette anni fa. Non sarà sudore oggi, sulla sua pelle, sarà terra, argilla, colore, materia. Intorno a lui, addosso a lui, come il vuoto che ha raggiunto il suo culmine, cristallizzandosi in un abbraccio che lo (trat)tiene e lo colma, esaurendosi.
Il reenactment di Ruben Montini permette oggi che un’azione passata assurga nell’adesso di riferimento a nuova vita.
Rievocare un passato implica un atto creativo il cui tratto essenziale è la capacità di condurre l’azione nel margine più o meno stretto, ma densamente ricco di possibilità, che si apre tra il preordinato, ovvero la partitura, e il contingente, ovvero l’occasione concreta e sempre differente di ogni singola esecuzione.
L’intrinseca performatività di una performance, che è e non può non essere legata alla sua possibilità di ripetizione e riproduzione, è pertanto resa evidente attraverso quella serie di rievocazioni e di documentazione che, in termini radicali, possono attribuire anche soltanto a un’immagine il carattere performativo. Una performance significa dunque la prima volta, così come la seconda, fino all’ennesima, senza alcun mero ritorno all’identico. Quello che ne resta è present-azione dell’hic et nunc riproposto in un movimento reale che è determinato dalla sua unicità performativa.
A Ruben Montini, Elsa Barbieri