Ivrea profuma di arance per lo Storico Carnevale

A “Ivrea la bella che le rosse torri specchia sognando a la cerulea Dora nel largo seno” è, dopo due anni di forzato stop, tempo di Carnevale. Che poi è la cosa che, forse, agli eporediesi lontanissimi discendenti di re Arduino riesce meglio dopo il capolavoro di aver contribuito, più o meno consapevolmente, alla disintegrazione di un sogno chiamato Olivetti. In fondo è sempre meglio ridere per non piangere. Salutati dalla “Vezzosa Mugnaia”, la Violetta eroina del carnevale che, ribellatasi al rito dello ius primae noctis, tagliò la testa al tiranno che governava la città dando così il via alle rivolte popolari, dal Generale e dal corteo storico in marcia accompagnato dalla banda di Pifferi e Tamburi, oltre trentamila partecipanti – e di questi circa ventimila quelli paganti un biglietto di ingresso non esattamente popolare – si sono riversati lungo le vie e le piazze del centro storico, teatro del carnevale e, soprattutto, palcoscenico della spettacolare battaglia delle arance. Tre giorni – da domenica fino a martedì grasso – durante i quali i circa diecimila aranceri di questa edizione, divisi tra nove squadre a piedi e quarantasette carri iscritti, si lanceranno addosso quintali e quintali di arance. Uno spettacolo e un rito che, per coloro che non sono del posto, è difficilmente comprensibile ma è sempre ricco di fascino. Uno spettacolo che, come sempre, lascia sul campo e sugli antichi selciati della città canavesana qualche ferito e le solite, rituali e spesso sciocche polemiche sullo spreco delle arance: la frutta viene acquistata garantendo un reddito a chi la produce; a fine giornata viene raccolta per diventare un ottimo concime naturale per uso agricolo; non ha le caratteristiche adatte al consumo cui siamo abituati. Insomma, con buona pace degli ultras del politicamente corretto, le arance tirate sono buone da mangiare quasi quanto una manciata di coriandoli. Per tre giorni Ivrea si colora di arancione punteggiato da migliaia di rossi Berretti Frigi, simbolo di libertà e di adesione alla rivolta, l’aria profuma di agrumi e, come recita la canzone che accompagna la festa “Non v’è povero quartiere che non sfoggi un po’ di gale, che non canti con piacere la Canzon del Carnevale. Con la sposa e col garzone che ad Abbà prescelto fu, va cantando ogni rione: il castello non c’è più”. Poi il Generale scende da cavallo e, al passo di una triste pifferata, guida la marcia per il funerale del Carnevale mentre gli Ufficiali dello Stato Maggiore trascinano sul selciato le loro sciabole e i cittadini seguono il corteo in rigoroso silenzio. Tutti si scambiano il tradizionale saluto “Arvédze a giòbia ‘n bot“. Una bambina vestita da fatina fa ciao con la mano ad una miniatura di Uomo Ragno che prova a lanciare una stella filante. Anche per quest’anno il carnevale è finito. E’ finita la festa e, in attesa di una risurrezione che tarda sempre a venire, è già – o di nuovo – quaresima.

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