A GARDEN OF MY OWN, Emanuela Bernascone – La New York di Edward Hopper al Whitney Museum, uno sguardo orizzontale sulla città dei grattacieli

edward hopper

Edward Hopper, Automat, 1927. Oil on canvas, 28 1/8 × 35 in. (71.4 × 88.9 cm). Des Moines Art Center; purchased with funds from the Edmundson Art Foundation, Inc. © 2022 Heirs of Josephine N. Hopper/Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York. Photograph by Rich Sanders

Edward Hopper è sempre un gran bel vedere, ma una mostra di Hopper a New York, su New York e nel tempio dell’arte americana è una combo imperdibile!

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Edward Hopper, Blackwell’s Island, 1928. Oil on canvas, 34 1/2 × 59 1/2 in. (87.6 × 151.1 cm). Crystal Bridges Museum of Art, Bentonville, Arkansas. © 2022 Heirs of Josephine N. Hopper/Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York. Image courtesy Art Resource, New York. Photograph by Edward C. Robison III

La mostra è ospitata sino al 5 marzo nella nuova sede del Whitney Museum, progettato da Renzo Piano, che ha inaugurato nella primavera del 2015 di fronte alla High Line, abbandonando l’Upper East Side per avvicinarsi all’Hudson, in quei quartieri industriali dove oggi ferve la creatività, ma soprattutto dove punta l’economia, con le gallerie di Chelsea e del Meatpacking District e i nuovi, costosissimi, complessi residenziali sul fiume.

Dalle finestrone del Whitney si può ammirare la nuova geografia urbana ed è quindi ancora più significativo che proprio qui sia allestita la mostra di Hopper, che testimonia i cambiamenti nella città che, come afferma egli stesso, “ha meglio conosciuto e più amato”.

La mostra è ricchissima di opere e di cimeli, grazie alla recente acquisizione dell’Archivio Sanborn Hopper si possono ammirare i taccuini con gli schizzi di Hopper, le sue prime stampe, lettere e molti altri interessanti memorabilia.

Viene così tratteggiata la personalità del pittore, amante della città, ma non della sua visione futuristica; non a caso nei suoi quadri non ritroviamo mai grattacieli, nonostante la sua lunga carriera abbia coperto anche gli anni in cui sono stati costruiti e magnificati i più noti grattacieli di New York come il Chrysler e l’Empire State Building. Ma Hopper era più interessato a ciò che stava ad altezza occhi, come ciò che gli scorreva davanti quando raggiungeva New York dal New Jersey sul treno sopraelevato; da qui l’origine delle tante finestre che compaiono nei suoi quadri, un escamotage per ritrarre il dentro e il fuori nella medesima opera.

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Edward Hopper, Manhattan Bridge Loop, 1928. Oil on canvas, 35 × 60 in. (88.9 × 152.4 cm). Addison Gallery of American Art, Phillips Academy, Andover, MA. © 2022 Heirs of Josephine N. Hopper/Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York. Image courtesy Art Resource, NY

Uno accanto all’altro sono appesi cinque lavori accomunati sotto lo stesso cappello: the horizontal city; queste opere realizzate tra il 1928 e il 1935 condividono lo stesso formato panoramico, la visione orizzontale di Hopper è così singolare che anche un critico dell’epoca osservò come fosse “speciale” l’indifferenza ai grattacieli per un pittore che ritraeva l’architettura di New York. Ma Hopper è sempre stato interessato al quotidiano più che all’iconico e grazie a lui abbiamo visuali diverse di una città che era in rapido sviluppo, dove si moltiplicavano le zone industriali così come le periferie.

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Edward Hopper, The Sheridan Theatre, 1937. Oil on canvas, 17 × 25 in. (43.5 × 64.1 cm). Newark Museum of Art, NJ; Felix Fuld Bequest Fund. © 2022 Heirs of Josephine N. Hopper/Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York. Image courtesy Art Resource

Anche quando si è trasferito in Washington Square, nella casa che ha condiviso con la moglie, la pittrice Josephine Verstille Nivison per tutta la vita, Hopper ha concentrato la sua attenzione sul paesaggio urbano visibile dalle sue finestre e dal suo tetto. Jo, da parte sua, sceglieva spesso soggetti di interni, dalla stufa panciuta alla tromba delle scale che conduceva ai settantaquattro gradini che portavano all’appartamento. Attraverso le loro finestre, gli Hopper hanno assistito ai cicli incessanti di demolizione e ricostruzione, laddove gli edifici del diciannovesimo secolo venivano abbattuti per far posto a nuove strutture. Durante i decenni nel Greenwich Village hanno sostenuto la conservazione del quartiere come paradiso per gli artisti e come uno dei punti di riferimento culturali della città. La coppia infatti era una grande frequentatrice dei teatri e dei cinema locali, lo testimoniano i numerosi biglietti conservati e ossessivamente catalogati ed ora in mostra. Hopper ha ambientato diverse composizioni al loro interno, concentrandosi non sull’azione sul palco o sullo schermo, ma piuttosto su momenti di transizione e intermezzi privati: un usciere perso nei suoi pensieri, uno spettatore solitario nel retro di un cinema. Le esperienze di Hopper in questi luoghi, in cui il mondo reale e quello fittizio sono divisi solo da un boccascena, hanno sicuramente contribuito a molte delle sue composizioni teatrali. Qui più che mai è chiara l’intenzione nel ritrarre luoghi che dovrebbero essere di incontro con l’altro, luoghi di socialità, come luoghi di estrema solitudine:

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Edward Hopper, Room in Brooklyn, 1932. Oil on canvas, 29 1/8 × 34 in. (74 × 86.4 cm). Museum of Fine Arts, Boston; The Hayden Collection—Charles Henry Hayden Fund. © 2022 Heirs of Josephine N. Hopper/Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York. Photograph by Museum of Fine Arts, Boston

Hopper ritrae poche figure nei suoi quadri,  e nella rara eventualità che ve ne sia più d’uno, i personaggi raramente si relazionano tra di loro, rimangono a distanza, nello stesso bar ad esempio, ma ognuno isolato dai propri pensieri  (come cantava agli inizi il buon Vasco: “ognuno a rincorrere i suoi guai”…). Questa continue dicotomie: dentro e fuori, luci e ombre, raccontano un artista molto più complesso di quello che siamo abituati a pensare.

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Edward Hopper, Morning Sun, 1952. Oil on canvas, 28 1/8 × 40 1/8 in. (71.4 × 101.9 cm). Columbus Museum of Art, Ohio: Museum Purchase, Howald Fund. © 2022 Heirs of Josephine N. Hopper/Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York

Nel suo diario personale “Note sulla pittura” del 1950 circa, Hopper descrisse il suo desiderio di creare “un’arte realistica da cui possa crescere la fantasia”. In un momento in cui molti artisti a New York erano diventati scettici nei confronti della pittura figurativa e si erano allineati con nuove modalità di astrazione, le raffigurazioni di Hopper di caffetterie, teatri, uffici e camere da letto degli appartamenti occupavano una potente via di mezzo, con la loro geometria radicalmente semplificata e inquietante, come ambientazioni da sogno. In questi ultimi lavori, Hopper incorporava spesso figure solitarie o piccoli gruppi di individui ambientati in spazi urbani generici, che tuttavia catturano le particolarità dell’ambiente costruito della città: una pietra arenaria a ridosso di un parco pubblico, una caffetteria che si apre sulla facciata di un altro edificio, la finestra di un vicino vista attraverso la propria. New York è dunque servita da palcoscenico o sfondo per le esplorazioni di quello che Hopper ha descritto come il “regno vasto e vario” della propria vita interiore. Ed è proprio un tuffo nella sua vita interiore, nella sua intimità, che si compie visitando i tre piani nei quali è suddivisa questa magnifica mostra. Un grande omaggio a Hopper e uno, ancora più grande, al suo soggetto preferito: New York.

Emanuela Bernascone

info@emanuelabernascone.com

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Edward Hopper, Sunlight in a Cafeteria, 1958. Oil on canvas, 40 3/16 × 60 1/8 in. (102.1 × 152.7 cm). Yale University Art Gallery, New Haven; bequest of Stephen Carlton Clark, B.A. 1903. © 2022 Heirs of Josephine N. Hopper/Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York

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Edward Hopper, New York Movie, 1939. Oil on canvas, 32 1/4 × 40 1/8 in. (81.9 × 101.9 cm). The Museum of Modern Art; given anonymously. © 2022 Heirs of Josephine N. Hopper/Licensed by Artists Rights Society (ARS), New York. Image courtesy Art Resource

A garden of my own, ottava puntata – Le puntate precedenti: novembre 2022 Andy Warhol icona pop a Padova, sorpresa nella sorpresa; ottobre 2022 Sarà una settimana Torinissima; settembre 2022 Superficie di Olivier Norek, un libro che ti strega; agosto 2022 Greta e le Gallerie d’Italia a Torino; luglio 2022 Smon Hantaï alla Fondation Louis Vuitton a Parigi; giugno 2022 Diplomatija astuta; novembre 2022 Andy Warhol icona pop a Padova, sorpresa nella sorpresa.

A garden of my own. Ho pensato a lungo a come intitolare la mia rubrica su Ieri Oggi Domani. e alla fine la descrizione che mi è parsa più pertinente è A garden of my own; non dovrei spiegarlo, perché è così che si fa, lasciando al lettore la curiosità e il divertimento di immaginare la causa recondita e anche la soddisfazione nel pensare di aver indovinato la motivazione. Ma io sono malata di comunicazione, nel senso che amo comunicare e ho bisogno che il messaggio arrivi forte e chiaro, senza incomprensioni; quindi eccomi qui a illustrare la mia scelta: è palese il riferimento a “A room of own’s own”, di Virginia Woolf, però io ho deciso di uscire dalla stanza per entrare in un giardino, il mio giardino. Uscire allo scoperto quasi, in un luogo tutto mio dove ospitare le passioni che mi animano; quindi qui seduti sull’erba parleremo di arte -naturalmente- e di libri, serie televisive e viaggi, ma anche di tutto ciò che attira, per un motivo o per l’altro, la mia attenzione. Comincio io a raccontare, in attesa di ricevere da qualche lettrice o lettore suggerimenti di argomenti che le o gli stanno particolarmente a cuore, perché in questo mio giardino c’è posto per tutti e niente mi riempie di gioia come ospitare gli amici in casa mia!

emanuela bernasconeTorinese, Emanuela Bernascone negli ultimi 30 anni ha lavorato nella comunicazione culturale, viaggiato molto con la numerosa famiglia e a settembre è uscito il suo primo romanzo, frutto, ça va sans dire, di un viaggio: “Malta bastarda”.

 

 

 

 

 

 

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